Bolivia 2002
Il Diario
Bolivia: sulle orme di Butch Cassidy e Sundance Kid
Lima – l’inferno?
Il nostro viaggio verso la Bolivia e il Peru comincia banalmente dall’ aereoporto di Milano Malpensa, prevede il primo scalo in Venezuela, a Caracas, con tappa successiva a Bogotà – Colombia – e finalmente Lima, Peru. L’aereoporto internazionale di Caracas ci si presenta come un cantiere scalcinato e inospitale, soprattutto per chi come noi, fumatori incalliti, scende dall’aereo dopo ore di astinenza con tre sigarette in bocca. Lo scalo prevede una sosta di sei ore, interamente passate a litigare con poliziotti venezuelani che ci impediscono di fumare anche sulle terrazze esterne.
Perché? Rischiamo la rissa e optiamo per sfumacchiare a turno nascosti nei gabinetti. Mah…. Ripartiamo per Bogotà (piccolo scalo decisamente più civile) e arriviamo a Lima all’una di notte. Saltiamo su un taxi e ci facciamo portare in hotel. Il breve viaggio di mezz’ora dall’aereoporto al centro città ci scuote: chilometri di baracche, poi la periferia semidistrutta e ostile. Il buio della notte avvolge palazzi fatiscenti e grigi, falò lungo le strade, disperazione e miseria.
Un forte impatto. Di tutt’altro genere ma sempre straniante l’hotel Sheraton unico prenotato dall’Italia a prezzo irrisorio, torre d’oro e di specchi incastonata nel centro della città. Saliamo al 27esimo piano o sù di lì, naturalmente ci docciamo e dopo uno sguardo dall’alto al mare metropolitano sotto di noi sprofondiamo nel materasso. Domani saremo più lucidi.
Al mattino, ristorati dal lungo sonno, decidiamo di approfittare della colazione dello Sheraton, un banchetto trimalcionico. La sala breakfast è affollata di manager, turisti snob e avventori in smoking. Dopo un attimo di esitazione decidiamo di fregarcene: scarponi da trekking (abbiamo solo questi, il viaggio è lungo e lo zaino non deve pesare!), pantaloni da esploratore, t-shirt masticata da un cane….pazienza.
Mangiamo per cinque (oggi c’è domani chissà) e usciamo nel delirio di Lima. La prima cosa che salta agli occhi è il cielo perennemente grigio, non una giornata nuvolosa, un grigio diffuso, appiccicoso, quella che qui si chiama “garua”, una nebbia densa creata dalla collisione delle acque fredde della corrente di Humboldt con le calde sabbie del deserto di Atacama. Un sudario perenne che avvolge case, cose, persone. Cominciamo a camminare per la città, come sempre girovagando a caso per mescolarci il più possibile alla verità del posto.
A metà giornata ci facciamo portare con un taxi a Miraflores, la zona più turistica, anche perchè dobbiamo acquistare i biglietti per La Paz. Abbiamo deciso di ripartire immediatamente per la Bolivia e fare il viaggio a ritroso da lì verso il Peru. Troviamo i biglietti per la sera successiva, gironzoliamo qua e là per Miraflores, tra ristoranti per turisti, bancarelle varie, finiamo per mangiare una pizza di gomma e bere un caffè in una strana caffetteria gestita da un americano. Che orrore: va bè, abbiamo lasciato l’Italia da poco, dobbiamo ancora disintossicarci!
Aria rarefatta
Altro sonno ristoratore, altro vagabondaggio per la città in attesa della partenza per La Paz. Voliamo di sera e per un errore di prenotazione o chissà che finiamo in prima classe al prezzo della seconda. Con il solito look post-atomico veniamo serviti da uno steward impeccabile che ci riempie continuamente i bicchieri con un ottimo vino rosso. Siamo già ubriachi a metà del volo. Arriviamo a La Paz di notte. Partire da Lima in aereo e atterare a La Paz significa passare dal livello del mare a 4000 metri in poche ore. La Paz vanta l’aereoporto più alto del mondo. Passato il controllo passaporti ci imbattiamo in una saletta attrezzata con l’ossigeno a disposizione del pubblico.
Ci sembra di stare bene e lo saltiamo. Usciamo all’aria aperta: un cielo stellato da sogno, un’aria fredda e limpida. Respiriamo a pieni polmoni. Con il solito taxi partiamo da El Alto verso la città, sprofondata in una conca laggiù. Quando scolliniamo e ci troviamo davanti La Paz restiamo impietriti dalla bellezza: pare che il cielo di stelle si specchi sul fondo della valle. Le mille luci della città laggiù pulsano come un cielo al contrario. Restiamo in silenzio, ammaliati. Scendiamo al primo albergo alla nostra portata economica. Una stanzetta angusta con vista cortile.
Facciamo conoscenza con il Frankenstein, il rudimentale sistema che consente di avere l’acqua calda qui in Bolivia: un accrocchio montato direttamente sul tubo della doccia e collegato ad un interruttore elettrico: praticamente una sedia elettrica in piedi. O ti fidi e ti lavi o dimentichi l’acqua calda per un mese, e con queste temperature non è che la doccia fredda sia così piacevole. Ci fidiamo. Probabilmente ci va solo di fortuna! L’altitudine si fa sentire e io passo la notte con il cuore in gola, un senso di soffocamento e la nausea. Non posso sdraiarmi senza sentirmi morire e cerco di “dormire” seduta nel letto. Sigfrido sta bene. A lui il comando.
Il giorno seguente camminiamo senza meta per la città, prendendocela con molta calma per acclimatarci all’altitudine. Acquistiamo i biglietti aerei per Sucre (giù, sempre più a sud, per poi risalire). La Paz è un intreccio di vie strette e ripide che tagliano le gambe e il fiato, esplode di colori e mercati, brulica di commerci e gente in transito. Nel nostro tragitto capitiamo nel bel mezzo di una manifestazione di protesta: una piazza piena di bandiere rosa e molta polizia.
Attorno, sulle colline, le baracche di El Alto e dei quartieri poveri incombono e osservano. Una città unica, dove i “ricchi” stanno in basso e i poveri in alto. D’altronde la ricchezza e la fortuna qui in Bolivia sono poter vivere il più possibile sotto i 4000 metri per avere una maggiore aspettativa di vita. Per marcare maggiormente il privilegio di abitare nella città bassa basta pensare che per scendere da El Alto a La Paz la strada è sbarrata da un casello con pedaggio a pagamento. Chi non paga non scende.
La sera ceniamo al ristorante Colonial, due stanze al primo piano di una vecchia casa piene zeppe di cimeli di ogni tipo: mappe, grammofoni, armi, trombe, bilance, fotografie, strumenti da cucina, tavoli antichi, sedie imbottite, fregi, dischi, tappeti, un’orgia per gli occhi. Domani si riparte.
Simon el Libertador
Altro giorno, altro aereo: destinazione Sucre, verso sud. Lasciando perdere le indicazioni della guida ci facciamo indicare dal taxista un albergo: ci porta in un hotel praticamente vuoto (forse perché non così centrale), un hotel coloniale con stanze arredate in legno scuro e un bel balcone sulla strada. Il prezzo è veramente irrisorio.
E’ nostro! Sucre è piccola e raccolta rispetto a La Paz: una grande piazza centrale, giardini, chiese. L’orgoglio locale ci ricorda ad ogni conversazione con la gente del posto che questa era l’antica capitale della Bolivia, la capitale del Libertador Simon Bolivar, e loro così ancora la considerano.
Ci consigliano tutti una visita al cimitero monumentale, in realtà un piccolo cimitero con cippi e tombe di personaggi che hanno fatto la storia del paese. Nulla di straordinario se non la capacità verbale e mnemonica della nostra guida: un bimbo di circa sette anni che ci sciorina nomi, date, storia locale.
Vince lui su altri dieci bambini che ci assaltano per accaparrarsi il “cliente”. Guadagna la nostra mancia ma si subisce gli altri nove che ci seguono come uno sciame per tutto il tour prendendolo per i fondelli e sottolineando errori e mancanze nel racconto! Sulla strada del ritorno passiamo per la “via degli avvocati”: su ogni porta una targa, “abogado” e sbirciando dentro le stanze aperte sulla via sempre e solo una scrivania, un uomo seduto, giacca e cravatta o camicia a mezze maniche, una macchina da scrivere.
Professionisti in attesa. Uno due tre quattro dieci: ma quanti sono? Abogado, abogado, abogado, abogado…..Facciamo una pausa birra con Cerveza Boliviana Nacional in un bar sordido: seduti accanto a noi 6 o 7 uomini in riunione. Pare un clan mafioso. Forse lo è.
Facciamoci gli affari nostri. Nel piccolo giardino fa capolino un colibrì colorato e svolazzante. Non ne avevamo mai visti così da vicino! Acquistiamo i biglietti del bus per la tappa successiva: Potosì. Ceniamo in un posto qualsiasi e torniamo a riposarci in albergo. Credo di avere la febbre. Facciamo finta di niente. Domani si parte comunque.
Potosì
All’alba ci carichiamo gli zaini in spalla e ci mettiamo in attesa del bus all’angolo di una strada: l’ “agenzia” così ci ha detto di fare. Dopo mezz’ora si insinua il dubbio della fregatura. Fiducia…fiducia… Fiducia premiata: con ritardo canonico e con precisione ineccepibile il bus si ricorda di noi nel suo giro tortuoso per la città in raccolta dei viaggiatori.
Impensabile per il nostro modo di vivere occidentale, ma assolutamente funzionante! Bolivia! Esta es mi tierra! Il viaggio per Potosì ci porta attraverso lande desolate, il bus si inerpica per strade tortuose e sterrate scalando per noi le montagne, il cielo blu elettrico è solcato da nuvole bianche come neve.
Facciamo una tappa a metà strada in un ristoro da far west. Nello spiazzo antistante incontriamo il nostro primo lama e due improbabili oche. Un vecchio con cui scambiamo due parole ci stende facendoci notare che abbiamo quelle che lui chiama “mani da gringo”: le sue raccontano il lavoro quotidiano, duro e continuo; le nostre, beh… Arriviamo a Potosì, una città-paese a 4090 metri di altitudine, la città delle miniere.
Sopra la città svetta il Cierro Rico, una montagna d’argento che ha fatto la storia, anche tragica, di questo luogo e della Bolivia tutta. Nell’arco di tre secoli 8 milioni di persone morirono nelle sue viscere, schiavi sfruttati dall’ingordigia dei conquistatori spagnoli che solo dal 1503 al 1660 trasferirono in Spagna oltre 16.000 tonnellate di metallo prezioso. Potosì nel 1672 era la città più grande al mondo alla pari di Londra e più grande di Parigi, Roma, Siviglia. 200.000 abitanti, quasi tutti uomini sfruttati dai conquistadores. Una tragedia antica di proporzioni immense, dimenticata dalla storia.
Oggi le miniere sono ancora sfruttate da cooperative di locali che, a prezzo di condizioni di lavoro durissime, trovano in ciò l’unica fonte di guadagno. Alloggiamo in una pensione molto basic anche se la nostra stanza all’ultimo piano è grande come una piazza, ha ben due letti matrimoniali e un lungo balcone dal quale il Cierro Rico ci osserva. Il malessere dei giorni precedenti si trasforma in febbre alta.
Riusciamo ancora a comprare il giro per Uyuni dei giorni successivi da una agenzia, beviamo mate de coca e mastichiamo le mitiche foglie su consiglio dei locali: in effetti aiuta a guarire. Mi infilo sotto le coperte fino al giorno successivo. Sto sudando e fuori fa un freddo polare. Ceniamo con un pacco di biscotti. Buonanotte. Speriamo.
5000m in jeep!
La luce del giorno ci restituisce un poco di forze; giriamo per le strade curiosando qua e là. Sulla piccola piazza centrale i vecchi chiacchierano seduti sulle panchine, i bambini lucidano le scarpe, al centro del giardino una statua che pare la statua della libertà in miniatura. Decidiamo di comprarci calzamaglie di lana e giacca a vento per la prosecuzione del nostro viaggio: nei prossimi giorni raggiungeremo i 5000 metri.
Il negoziante ci racconta che le forti nevicate della primavera hanno isolato alcuni piccoli paesi e ucciso uomini. La vita qui tocca estremi di durezza che noi non immaginiamo neppure. Al pomeriggio ci imbarchiamo sull’ennesimo scasso-bus di turno alla volta di Uyuni. Arriviamo che è buio. Uyuni è un villaggio di frontiera con strade di terra, poverissimo. Vive solo in quanto tappa di partenza per il tour verso il Salar e le montagne circostanti. Prima del sonno ceniamo in un bel posto riscaldato con grosse stufe. Sigfrido assaggia la sua prima bistecca di alpaca.
L’essere vegetariana mi fa optare per altro anche se in effetti il carnivoro pare decisamente soddisfatto. Io continuo la mia lunga serie di riso con verdure. In effetti in questi luoghi si comincia a ripensare il cibo come una necessità più che un gusto. Dormiamo in una stanzetta grossa come un armadio, col cesso al piano di sotto, il freddo pungente e sempre e solo acqua fredda dal tubo della doccia in comune. Con gli scarafaggi.
Al mattino si forma l’equipaggio della nostra jeep: noi due, due ragazze e un ragazzo di Barcellona, due ragazzi francesi e la nostra guida-autista. Viaggeremo per quattro giorni sulle montagne, alloggeremo in posti tappa prefissati, il cibo e l’acqua saranno solo quelli che la guida ha portato per noi, calcolando il fabbisogno. Speriamo bene. La prima tratta del viaggio è l’attraversamento del Salar de Uyuni, una distesa bianca di sale a predita d’occhio. La luce è accecante, il paesaggio lunare.
Ci fermiamo all’Isla del los Pescadores, un pezzo di terra e rocce completamente ricoperto da cactus giganti e secolari che spunta dal deserto salato. Accanto un villaggio con case e mobili costruiti interamente col sale. Pranziamo con panini e proseguiamo la corsa. La jeep attraversa il bianco seguendo piste tracciate da altre auto, noi potremmo perderci in un attimo. Non si vede nulla all’orizzonte, solo un luccichio che ci circonda a 360 gradi. Viaggiamo tutto il giorno per pianure desertiche, zone rocciose, primi pendii delle grandi montagne che ci circondano. A lato della strada, timide e bellissime, alcune vigogne si spostano in gruppo. Arriviamo alla sera al primo bivacco in un paese minuscolo perso nel nulla di un altipiano.
Pochissime anime vivono qui, lontane da tutto, a ore e ore di auto dalla “civiltà”. Sul limitare del villaggio un piccolo cimitero di croci blu cobalto, cani ululanti qua e là. Mangiamo tutti insieme e ci facciamo una camminata nel buio profondo della notte sotto una volta nero china puntinata di stelle. Freddo ? No, molto di più. L’aria gelida entra nei polomoni come una lama. Nonostante tutto finiamo a bere birra in un locale scaldato da qualche stufa e alta concentrazione umana. Poi a dormire. Domani si parte prima dell’alba.
Laguna Colorada
Partiamo che è ancora buio tutti un po’ rintronati: si dorme poco con questo freddo e doversi svegliare in piena notte per andare in bagno ha voluto dire cercare la pila, vestirsi, scendere incolumi delle scale di legno che portano in cortile dalla stanza, cercare di non far cadere la pila nel buco del gabinetto, risalire le scale, rispogliarsi e rimettersi nel letto. E’un’operazione che porta via un buon pezzo di sonno.
Se poi lo devi fare più di una volta giuri a te stesso che non berrai mai più birra. Poi naturalmente non lo fai. Viaggiamo per gran parte della giornata attraversando paesaggi da sogno, inerpicandoci con la jeep sempre più su, per strade bianche: attraversiamo piccole valli solcate da torrenti e corsi d’acqua dove gruppi di lama si abbeverano incuranti della nostra presenza, ci fermiamo in una piana dove sgorgano sorgenti calde e i più temerari si spogliano per fare il bagno (fuori ci saranno 3 gradi!).
Arriviamo al secondo bivacco, Laguna Colorada, un immenso lago vulcanico sulla vetta del mondo: 4278 metri. Un lago che, a causa di alghe e microorganismi particolari, è rosso. Proprio rosso, senza dubbio. Dentro al lago stazionano stormi di fenicotteri rosa. Qui in Bolivia? Sembra un’allucinazione. Scaricati gli zaini in una delle tante camerate del rifugio camminiamo lungo il lago. Attorno le cime delle montagne sono bianche di neve, attraversiamo a piedi una miniera a cielo aperto di talco, osserviamo in silenzio lo spettacolo magnifico che ci circonda. Come cala il sole la temperatura scende improvvisamente di almeno dieci gradi sotto lo zero.
La guida-autista ci ha cucinato per cena su un fornellino un minestrone acquoso e pasta al sugo: spazzoliamo tutto, qui non si butta via niente! La notte è decisamente dura: altitudine e gelo sono un mix pesantissimo. Arriviamo vivi alla successiva alba.
Ai confini tra Bolivia e Cile
La giornata seguente ci porterà al confine tra la Bolivia e il Cile. Saliamo fino a 5000 metri in una zona di geyser: la terra bolle di fango in grosse pozze tra le rocce. Qua e là il suolo sputa fuori potenti colonne di vapore alte molti metri. Si cammina a fatica a questa altitudine anche perche qui la neve è perenne e sprofondiamo fino al ginocchio. Dopo i geyser riprendiamo la jeep e attraversiamo un deserto di terre rosse.
Passiamo accanto a quelle che chiamano rocce di Dalì, strane formazioni naturali che ricordano nelle forme le sculture dell’artista. La pista ad un tratto diventa come una enorme autostrada di terra in discesa: salgono dalla parte opposta verso di noi enormi camion che sollevano nuvole di polvere. Chi sono? Chiediamo. Mezzi pesanti a 5000 metri nel deserto delle montagne non sono proprio una visione normale. Contrabbando dal Cile alla Bolivia ci dice la guida. Contrabbando di che ? Chiediamo noi. Di camion, ci dice. Ah, ecco. Ineccepibile.
Facciamo una tappa ad un secondo lago in quota (Laguna Verde) proprio sotto il vulcano Licancabur (5960 metri dalla base cilena, ma noi dalla parte boliviana siamo già quasi in vetta !). Arriviati alla frontiera un piccolo bus carica alcuni del nostro gruppo che proseguono per il Cile. Noi ripartiamo per l’ultima tappa notturna.
Viaggiamo tutto il resto della giornata e arriviamo col buio a Kulpina Ka, ospitati dai parenti della nostra guida. Una cena frugale, una ennesima notte di gelo e riposo. Qualche inconveniente con un bagno otturato. Tutto nella norma.
I nostri ospiti ci raccontano di proprietari occidentali delle miniere circostanti che stanno comprando qui in questa zona sperduta della Bolivia manodopera sottopagata a colpi di ristrutturazioni pubblicitarie dei paesi. Rifanno strade e case con quattro soldi e barattano il tutto con gratitudine e disponibilità lavorativa dei locali in cambio di un tozzo di pane. Possibile che l’occidente ricco spadroneggi sempre e ovunque senza etica alcuna? Domanda superflua, risposta scontata.
Falta un pasajero!
Al risveglio ci gustiamo il raduno dei bambini nel cortile della vicina scuola con tanto di alza bandiera e inno nazionale. Ripartiamo alla volta di Uyuni: ultima tappa il cimitero dei treni a mezz’ora dal villaggio. Lungo binari morti che corrono accanto alla strada decine e decine di treni, vagoni, locomotive, stazionano arrugginiti in mezzo alla pianura. Immobili e silenziosi, smontati pezzo a pezzo dai cacciatori di ferro, sono scheletri preistorici bruciati dal sole e consumati dal vento.
Ci camminiamo in mezzo, ci arrampichiamo sopra ed è come se i treni viaggiassero ancora per noi. Sono lì a testimoniare il loro passato di fatica e di storie. Non un cumulo di ferraglia, un cimitero vero e proprio. Ciò che era vivo può morire. Come un’anima qualsiasi. Tornati ad Uyuni dobbiamo aspettare le 10 di sera per partire con il bus che ci riporterà a La Paz. Lasciamo gli zaini nella piccola agenzia che ci ha organizzato il tour dei giorni appena trascorsi.
Passiamo il resto della giornata tra un mate de coca e una birra. Ceniamo con gli amici spagnoli e quando andiamo a riprenderci gli zaini l’agenzia è inesorabilmente chiusa. Aspettiamo speranzosi, ma quando manca solo un quarto d’ora alla partenza del bus la questione si fa inquietante: che fare ?
Pensiamo due minuti, chiediamo ai “vicini di negozio”. Nessun risultato. Il tempo per pensare finisce. Sfondiamo la porta. Rimedio estremo. Con gli zaini in spalla corriamo fino alla stazione dei bus e saltiamo per un pelo sul nostro. Comincia un lungo viaggio notturno. Lo spazio vitale tre i sedili consente al massimo la posizione a zeta o esse rovesciata con ginocchia in bocca.
Dopo qualche ora ci fermiamo in una landa desolata con un piccolo ristoro: tappa tecnica wc. Tutti giù. Il wc non c’è. Pazienza. La facciamo dietro ad un muro. Risaliamo nel loculo. L’autista parte. Nel buio della notte un uomo ci corre accanto. Un’allucinazione ? Dal fondo del bus gridano: “Falta un pasajero! Falta un pasajero!”. Ecco, appunto quel povero cristo che ci sta inseguendo a piedi. Tutti sembrano molto divertiti. Tranne il pasajero. Lo recuperiamo. Salvo.
Arriviamo ad Oruro in piena notte e cambiamo bus per la seconda tratta. Alla stazione non ti puoi sbagliare. Urlatori professionisti ti indicano le partenze: “A La Paz! A La Paz! “ da una parte, “A Cochabambaaaaaaa!” dall’altra. Il nuovo bus è più comodo dell’altro e ci pregustiamo qualche ora di sonno durante il viaggio. Sbagliato. Come arriviamo in piena pampa il bus si scassa.
Tutti giù di nuovo. L’autista accende un fuoco per scaldarci e per segnalare la nostra presenza. Dopo una lunga e vana attesa di un meccanico alcuni tra cui noi decidono di fermare il primo bus che passa e farsi caricare a forza anche se posto a sedere per tutti non c’è….
La Paz – Gioiello Andino
Arriviamo a La Paz al mattino, decisamente stremati. La solita anima buona di un taxista ci consiglia e ci porta in un hotel verso la collina, in una zona periferica della città. La stanza è dignitosa e a buon prezzo: la prendiamo al volo. Confusi probabilmente dalla devastazione psico-fisica che ci prevade ci facciamo una veloce doccia e decidiamo di fare un giro per la città.
Alle tre del pomeriggio torniamo in albergo con l’innocuo proposito di fare un riposino prima di cena. Ci addormentiamo di botto e ci risvegliamo il mattino seguente: più o meno 18 ore di sonno ininterrotte senza neppure mangiare. Una cosa mai vista. Decisamente ne avevamo bisogno. Decisamente.
Perfettamente restaurati trascorriamo la giornata per le strade di La Paz, gustandocela più a fondo rispetto al primo giorno di arrivo in Bolivia. Tra scatti fotografici, camminate senza meta, piccoli acquisti ci immergiamo il più possibile nel quotidiano. La città è viva e bellissima, fatta di grandi spazi e vie strette e nascoste.
Entriamo in un piccolo negozio di strumenti musicali all’interno di un cortile. L’acquisto di un charango ci permette di conoscere un uomo speciale. Solo dopo mezz’ora di chiacchiera captiamo che il nostro suonatore di charango è cieco. La naturalezza con cui si muove nel suo negozio, con cui ci ha stretto la mano, la maestria con cui ha suonato hanno fatto passare in secondo piano l’assenza della vista.
Sulla ripida via centrale troviamo anche il modo di comprare viaggio e spostamenti per Machu Pichu in Peru. Un giovane e intraprendente “agente di viaggio” ci cattura con la sua serietà e precisione. Sarà vero ? Domani si vedrà. Torniamo a mangiare al Colonial, ristorante-antiquario-robivecchi. Il vino è buono, l’atmosfera da locanda dei conquistadores affascinante. Il prezzo alla nostra portata. Querida Bolivia!
Attraversando il Titicaca
Partiamo per Copacabana, quella vera dato che quella brasiliana ha preso il nome da questa. Come lasciamo La Paz e arriviamo a El Alto dobbiamo fare sosta per cambio gomma del bus. L’inizio è inquietante. Dopo qualche ora di viaggio dobbiamo atttraversare un braccio di lago in traghetto, ma non un lago qualsiasi: il mitico lago Titicaca.
Ci emozioniamo ? Certo che sì. Arriviamo verso il primo pomeriggio a Copacabana e troviamo alloggio in un grosso albergone molto spartano sulle rive del lago. Mangiamo qualcosa seduti in giardino ascoltando dal vivo due musicisti locali che cantano e suonano davvero bene. Ci emozioniamo di nuovo ? Certamente. Compriamo il CD ? Neanche da chiedere.
Davanti alla cattedrale ci imbattiamo nel Cha’lla dei veicoli, l’offerta rituale alle divinità che fa sì che Copacabana sia periodicamente invasa da auto, bus, camion che vengono adornati con coloratissime ghirlande e le cui ruote vengono asperse di alcool. Una tradizione qui in Bolivia, tra il religioso e il pagano, che appartiene indifferentemente alla cultura inca, aymarà e cristiana.
Tornati in albergo, dalla finestra della nostra stanza ci godiamo un tramonto infuocato tra grosse nuvole nere che mostra tutta la magia del luogo e chiudiamo la giornata cenando in un piccolo posto scuro e buio scaldato da una stufa fiammeggiamte.
La giornata successiva è dedicata al lago e al trekking sull’Isla del Sol. Partiamo con un traghetto che prende il largo tra vento e pioggia ma noi stoicamente restiamo fuori coperta. Congelati e contenti scorgiamo al largo pure una tromba marina. Certo, siamo su un lago, ma un lago grande come un piccolo mare, e poi non credo si possa chiamare tromba laghina.
Comunque tromba è tromba e l’aspetto è ugualmente minaccioso. Con la barca passiamo accanto all’Isla de la Luna e approdiamo a Isla del Sol. Una tappa tecnica per un corroborante mate de coca e poi in cammino: ci vuole tutta la giornata per attraversare l’isola. Percorriamo alcuni tratti lungo la costa, ci spingiamo nell’interno salendo per sentieri ripidi, incontriamo sul nostro cammino altari votivi precolombiani, bimbi silenziosi con il volto bruciato dal sole e dal gelo, un’alpaca disneyano, tessitori di stoffe, scorci di Titicaca da documentario del National Geographic. L’ultimo tratto del cammino per raggiungere la baia dove ci aspetta la barca del ritorno è una ripida scalinata da percorrere in discesa accanto ad un ruscello.
Risaliamo a bordo del traghetto e rientriamo a Copa…Copacabana…Doccia semifredda produzione Frankenstein, riposino e cena mitica: sfidiamo il cuoco locale e ci facciamo servire il Pique a lo Macho, un misto di carne al sugo, verdure, riso e peperoncino in proporzioni inaudite. Fuori c’è il gelo, nello stomaco l’equatore…..e domani si parte per il Perù.
L’itinerario
1 -2 agosto 2002 – Milano – Caracas – Bogotà – Lima in aereo
3 agosto 2002 – in giro per Lima
4 agosto 2002 – in giro per Lima – da Lima a La Paz in aereo
5 agosto 2002 – in giro per La Paz
6 agosto 2002 – da La Paz a Sucre in aereo – in giro per Sucre
7 agosto 2002 – da Sucre a Potosì in bus
8 agosto 2002 – da Potosì a Uyuni
9 agosto 2002 – tour sulle montagne– Salar de Uyuni – Isla de Los Pescadores – San VIcente
10 agosto 2002 – San VIcente – Laguna Colorada (4278 mt)
11 agosto 2002 – Laguna Colorada – confine con il Cile – Laguna Verde –vulcano Licancabur (5960 mt) – Kulpina Ka
12 agosto 2002 – da Kulpina Ka a Uyuni – in giro per Uyuni –partenza notturna per Oruro – La Paz con il bus
13 agosto 2002 – in giro per La Paz
14 agosto 2002 – in giro per La Paz
15 agosto 2002 – da La Paz a Copacabana – Lago Titicaca
16 agosto 2002 – Copacabana – Lago Titicaca – trekking sull’Isla del Sol
17 agosto 2002 – da Copacabana, Bolivia – al Peru
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