Fiji 2003
DIARIO
Fiji – da Nantucket a Levuka
Tribal Connection!
Dopo una lunga e approfondita ricerca che ci ha impegnato per i gli interminabili mesi invernali siamo giunti alla conclusione che per visitare la Polinesia e la Melanesia poche sono le mete accessibili al portafoglio: si salvano Fiji, Samoa e Tonga. Mica poco. Scegliamo le prime due, iniziamo a risparmiare e a godere solo all’idea. Arriva la tanto sognata data del 23 agosto: partiamo! Ci aspettano quasi 24 ore di viaggio: voliamo da Milano a Francoforte, da Francoforte a Los Angeles, da Los Angeles a Nadi (Fiji).
Dire che è un viaggio interminabile è dire poco: assenza di nicotina, classe economica, pasti sintetici, nuove regole deliranti alla dogana dell’aereoporto americano (ci costringono a uscire in territorio USA e a ritirare il bagaglio per poi rientrare immediatamente, con code di oltre un’ora e mezza…mah). Unica nota di colore: la mitica scritta Hollywood sulle colline di Los Angeles. Esiste. Arriviamo alle 2.30 di notte del 25 agosto a Nadi, isole Fiji.
Il 24 agosto, compreso il compleanno di Sigfrido, ce lo siamo persi per strada. L’aria è umida e fresca. Cerchiamo di farci portare all’albergo prenotato da casa ma non esiste. Incominciamo bene. Nessun problema: ne troviamo un altro grazie al solito taxista tuttofare e ci smaterializziamo sotto le coperte. Abbiamo viaggiato per un giorno intero, da calendario ne sono passati due, è buio ma forse per noi sono le 10 del mattino: e chi ci capisce più niente? Ci penseremo poi.
Buongiorno, siamo alle isole Fiji, South Pacific: come, scusa ? Non ho capito. Dico, siamo alle Fiji. Ma va!….Smettila. Guarda fuori: …palme… nuvole bianchissime in campo azzurro…vento…oceano…fiori nei capelli…uomini con il pareo…cavolo, siamo alle Fiji, naaaah… Siamo precisamente sull’isola di Viti Levu, che con Vanua Levu e altre centinaia di isole minori forma l’arcipelago figiano.
Decidiamo di accertarcene definitivamente uscendo per fare un lungo giro a piedi senza meta precisa. Camminiamo lungo la strada principale e arriviamo a Nadi città: tutto è nuovo e da osservare, i colori, le facce, la vegetazione, le cabine del telefono: due lance incrociate ad incorniciare un box di plexiglas. Tribalconnection! Arriviamo sull’oceano e camminando lungo una spiaggia immensa e deserta costeggiata da altissime palme arriviamo ad un piccolo bar che ci consente di inaugurare la nostra prima birra locale: Fiji Bitter! La giornata se n’è andata, il sole sta scendendo.
Ci godiamo la lunga passeggiata del ritorno e, dopo una doccia e un po’ di relax, decidiamo di cenare in albergo. Veniamo “deliziati” da un tristissimo pianista di pianobar in gonna che ci sciorina un repertorio improbabile. Birretta della buonanotte in giardino e poi a dormire.
Da Nadi a Suva
Al mattino pronti e scattanti come due faine ricompattiamo il bagaglio e raggiungiamo la stazione dei bus di Nadi (pr. Nandi), allocata come da manuale in mezzo al mercato. O è il mercato che germina attorno ai bus ? Forse la seconda ipotesi, comunque è una regola assoluta.
Percorriamo per alcune ore la Coral Coast, costa sud di Viti Levu, sulla Queens Road con l’oceano sempre a vista e, dopo una tappa tecnica a Sigatoka, arriviamo nei pressi di Korotogo, saltiamo giù dal bus e scegliamo un posto per la notte. Scegliamo bene: il prezzo non è proprio economico ma vogliamo per una volta entrare personalmente in un poster: bungalow sul mare, patio, palme ondeggianti, mare cristallino, onde bianche oltre la barriera corallina.
Ci comportiamo da manuale: costume da bagno, tuffo, sigaretta con sguardo al tramonto, bottiglia di vino bianco a cena. Non ci facciamo mancare nulla. D’altronde siamo dentro ad un poster, mica si scherza!
La mattinata seguente è dedicata alla visita di un piccolo parco naturale nell’entroterra, il Kula Eco Park. Ci arriviamo a piedi rischiando molteplici volte di essere schiacciati come rane cieche visto che qui la guida è a sinistra. Meglio ricordarsi, d’ora in poi. Il piccolo parco è molto ben tenuto e ci offre un giro ricco: pappagalli coloratissimi, rapaci, iguane, volpi volanti, tartarughe acquatiche, piante e fiori di ogni tipo. Siamo soddisfatti.
Torniamo indietro, ci carichiamo gli zaini e aspettiamo con fiducia il passaggio di un bus. L’attesa e premiata: si parte per Suva, la capitale. Come tutte le capitali del mondo, per quanto piccola Suva è un caos: macchine, bus, taxi, negozi, banche, supermercati, fiumi di gente per strada. Troviamo alloggio per la notte al Colonial Lodge, una vecchia casa privata sulla collina, gestita da una famiglia.
Poche stanze, cucina in comune, atmosfera casalinga. Un bel posto. Passiamo il pomeriggio in giro per la città e alla sera ceniamo in un ristorante indiano veramente sublime. Abbiamo acquistato i biglietti aerei per l’isola di Taveuni e domani è già ora di partire. Basta città.Vogliamo l’angolo selvaggio.
Taveuni
Al mattino con un taxi raggiungiamo l’aereoporto di Suva (Nausori) che è un po’ fuori città. Attraversiamo periferie povere e scalcinate come tutte le periferie del mondo (non è che la Melanesia si differenzi) e arriviamo di fronte al nostro aereo: un bielica microscopico dipinto a colori sgargianti. Bisogna salire. Il timore è immediatamente cancellato dallo spettacolo che ci si presenta durante la trasvolata: barriere coralline, mare turchese, isole ricoperte di foreste verdissime.
Atterriamo a Taveuni, al Matei airport: non possiamo confermare in tutta coscienza che sia un aereoporto perché in realtà è solo una lunga pista, al fondo sterrata, che taglia in due la vegetazione. Su un lato un baraccotto grosso come un chiosco di gelati sarebbe lo scalo, terminal partenze arrivi e punto di ritrovo per fare due chiacchiere.
Ci carichiamo gli zaini in spalla e ci incamminiamo lungo l’unica strada che costeggia il mare girando tutt’attorno all’isola. La strada è asfaltata ma non incontriamo nessuno. Le poche persone che incrociamo camminano in mezzo alla carreggiata: tanto se arriva un mezzo lo senti e lo vedi con tutto l’anticipo necessario. Conosciamo da vicino il sorriso cordiale e sincero dei figiani.
Una serenità nello sguardo difficile da dimenticare. Camminando camminando arriviamo alla meta scelta per la notte, il Beverly Beach Camping: quattro tende piantate sulla spiaggia, una tettoia coperta, con panche e tavolo per mangiare, due cabine doccia-cesso alimentate ad acqua piovana. Alcune tende sono occupate (due coppie di cecoslovacchi e australiani e un ragazzo americano).
Ci dicono che i gestori abitano in cima alla collina. Bisogna andarli ad avvertire se vogliamo fermarci. Sigfrido parte in missione: lo vedo arrampicarsi su per il sentiero in mezzo alle palme, poi sento un abbaiare di cani poi più nulla. Speriamo. Dopo un po’ ridiscende incolume: è fatta, la tenda è nostra!
Verso il tramonto, come tutte le sere e le mattine, scende dalla collina la vecchia proprietaria accompagnata da un cane preistorico e pulciosissimo (Fernando) che abbaia come una foca rauca, a portare frutta per noi e fiori freschi da mettere sul tavolo e dentro i gabinetti.
It’s a wonderful world ! L’elettricità non esiste, per fortuna abbiamo una pila. Alla sera ci incamminiamo lungo la strada per cercare un posto dove mangiare. Il buio è totale. Alla prima curva troviamo un piccolo bar ristorante gestito da due ragazzi molto giovani con un “aiutante” di mezza età simpatico e chiacchierone che si piazza al nostro tavolo e tra birre e sigarette ci racconta un poco di storia locale. Il ristorante “Tramonti” è a picco sull’oceano: quattro tavoli, luce di candela, immensa volta stellata sulle nostre teste. Bula Fiji, vinaka.
Doccia nella foresta
Questo giardino dell’eden merita una giornata di stop e di totale relax. Dall’alba al tramonto del giorno successivo ci trasciniamo dalla sabbia all’acqua all’amaca. Vediamo il sole scendere lentamente sul mare e colorare il cielo di sfumature mistiche.
Quando la notte avvolge tutto ci avventuriamo nell’unico altro posto che serve pasti e la padrona-matrona, nella sua fantastica cucina a vista, ci prepara una pizza (piatto oramai internazionale) così composta: disco di pasta di cemento alto tre centimetri ricoperto da un bosco di verdure e formaggio gommoso dal sapore inesistente: peso specifico per centimetro quadrato incalcolabile.
Il figlio-cameriere, un figiano alto due metri decisamente più femminile della madre, ce la serve sculettando. Io ne mangio una fetta e mi sento sazia per le prossime tre settimane. Sigfrido, temerario, la mangia quasi tutta ma senza scampo la rifà pari pari al gabinetto nella notte. Uguale. Come appena sfornata. Speriamo che la signora del campeggio e la matrona del ristorante non abbiano un accordo di riciclaggio!
Dedichiamo il giorno appena sorto alla gita al Lavena Coastal Walk, un trekking all’interno di un parco che costeggia l’oceano per un primo tratto per poi addentrarsi nella foresta fino ad arrivare ad una bellissima cascata. Con una guida locale raggiungiamo in auto l’ingresso del parco, poi partiamo a piedi per la lunga camminata: più di un’ora e mezza all’andata, lo stesso al ritorno.
Siamo insieme ad Hanka e George, i due ragazzi della repubblica Ceca del campeggio. Lungo il percorso attraversiamo la foresta folta e piena di fiori dalle forme improbabili, incocciamo in ragnatele di due metri di diametro, ci avventuriamo per alcuni tratti su spiagge laviche battute dall’oceano grigio e minaccioso, attraversiamo sperduti villaggi di pescatori. Piove, ma non importa. Passiamo una specie di ponte tibetano e proseguiamo verso l’interno lungo il corso di un fiume.
Il percorso si fa via via più impervio ma la meta finale meritava tanta fatica. Il sentiero termina in una stretta gola e al fondo si intravedono le cascate. Per arrivarci sotto bisogna arrivare a nuoto, il sentiero qui finisce. Non fa caldo, piove ma ci mettiamo in mutande e ci buttiamo. Impossibile rinunciare. L’acqua è gelata. Il tuffo ci ridà vigore e arriviamo sotto il muro d’acqua. Intorno a noi solo la foresta piena di suoni sconosciuti.
Un vero sogno ad occhi aperti. Torniamo ai nostri vestiti bagnati e ripartiamo per il campo base. Sulla strada del ritorno la pioggia diventa torrenziale e ci rifugiamo sotto una tettoia improvvisata. Si uniscono al gruppo due botanici ungheresi (!?!) over settanta con sacchi pieni di muschio e piante varie che hanno raccolto lungo il tragitto: una coppia decisamente curiosa.
Troviamo una noce di cocco e decidiamo di sperimentarla seduta stante. Sigfrido purtroppo si infilza una mano con il coltello: un bel taglio profondo che comincia a sanguinare copiosamente. Non è proprio la situazione ottimale per un incidente simile: foresta, diluvio, almeno un’ora di cammino da affrontare. Madre natura ci viene in aiuto: impariamo che il latte di cocco (forse per la sua essenza zuccherina) è un ottimo cicatrizzante. Indiana Jones, ciucciaci il calzino.
La fine del giorno
Il giorno seguente lasciamo la nostra mitica e microscopica tenda canadese, ricompattiamo il bagaglio e con un passaggio raggiungiamo Wayewu, cittadina verso sud sempre sulla costa, da dove partono i traghetti per l’isola di Vanua Levu.
Dobbiamo aspettare qualche ora per la partenza e facciamo colazione in un piccolo baraccotto sulla strada. Quasi per scherzo proviamo ad infilare la tessera telefonica in un telefono pubblico scalcinato e componiamo il numero di un cellulare in Italia: cacchio ci rispondono e sentono pure bene ! In un posto così sembra fantascienza.
Approfittiamo delle ore in esubero per visitare un campo sopra il paese dove un grosso cartello segna il passaggio del 180° meridiano: qui siamo veramente dalla parte opposta del nostro mondo. Il cartello è tagliato a metà: di qua è oggi, di là è ieri.
Da non crederci. Ogni giorno qui sorge il primo sole in assoluto. Curioso. Ci imbarchiamo e alle sei di sera arriviamo a Savu-Savu, sull’isola di Vanua Levu. Sul battello scambiamo qualche parola con un australiano sulla settantina, naturalizzato figiano, che in una frase racchiude lo spirito di questa gente: sono semplicemente persone felici, ci dice. In effetti nulla può meglio descrivere i sorrisi più luminosi e cordiali che mai ci è capitato di incontrare. Troviamo un posto decoroso per la notte e ceniamo in un piccolo locale “allietati” da un duo jazz giapponese. Inquietante. Domani ci aspetta un aereo per ritornare a Suva e da lì immediatamente ripartire per l’isola di Ovalau.
Levuka – Fiji
La partenza da Savu-Savu per Suva (ma iniziano tutti per esse, porco giuda?) è prevista al mattino presto. Giungiamo in aereoporto, cioè, sul campo/pista, pesiamo gli zaini, ci pesiamo noi (sui piccoli aerei si fa così!!) e pregando il dio del volo partiamo sobbalzando. Atterriamo a Suva e, nelle ore di attesa per il secondo volo, ci facciamo portare da un taxista in un vicino parco naturale molto bello, scuro e folto di vegetazione, attraversato da decine di corsi d’acqua.
Partiamo per Ovalau su un aereo ancora più piccolo (sembra un gioco: le matrioska-aereomobili. L’ultimo della serie non lo voglio vedere). Atterriamo ad Ovalau in un campo di patate e con un camioncino, dopo un’ora di tragitto su strada sterrata, arriviamo a Levuka con il fondoschiena frastagliato. Prendiamo alloggio allo storico Royal Hotel, un albergo coloniale antico e affascinante. Sembra d’essere in un’altra epoca, ma in quest’epoca è ora di andare a dormire.
Levuka è un antico porto coloniale ottocentesco: camminando per le sue strade si rimane stupiti dall’atmosfera simile in tutto e per tutto a quella di un paese del “vecchio e selvaggio west”. Le case sono in legno, colorate e porticate sulla via, l’atmosfera è molle e decadente, la tranquillità assoluta.
Non sembra possibile che nell’ottocento Levuka fosse uno dei piu’ importanti porti del pacifico. Tratti di questo passato sono impregnati nelle pareti del Royal Hotel: grandi saloni, sala biliardo, foto antiche alle pareti. Le stanze, al primo piano, hanno pavimenti in legno scricchiolante e finestre sulla baia che si aprono come quelle di una barca. In effetti tutto l’hotel pare un grosso veliero in disarmo. Molto suggestivo. Decidiamo di girare i dintorni di Levuka affittando due biciclette.
La strada che costeggia la costa lungo l’isola offre scorci stupendi. Pedaliamo per tre ore su un fondo sterrato tra voragini e sassi grossi come cocchi. Rischiamo la caduta più volte, io soprattutto che ho la scioltezza di un pupazzo di legno. Naturalmente cado nell’esatto istante in cui incrociamo cinquanta ragazzi e ragazze all’uscita di una scuola. Perfetto. A metà strada ci fermiamo a bere qualcosa in un resort mezzo in disuso.
La piccola piscina è piena di foglie e ci sguazza solitaria una rana. In effetti la povera non nuota felice, semplicemente non riesce più ad uscire. Facciamo la nostra opera buona cavandola dall’impiccio. Mi immagino che nel regno degli anfibi per anni e anni si racconterà della leggenda del principe ranocchio pescato da un gigante buono quando oramai disperava di essere salvo. Rane e rane per generazioni si tramanderanno la leggenda. Sarebbe bello. Immagino e sogno.
Il volo delle Volpi
Decidiamo di lasciare il Royal Hotel per un giorno e di trasferirci sulla minuscola isola di Caqelai (pr. Tangalai), un atollo sul quale si può pernottare in un unico posto gestito da una famiglia di samoani Metodisti. Formiamo un gruppo misto: una coppia australiana di mezza età, un ragazzo braasiliano e la sua fidanzata americana, un ragazzo svizzero e noi.
Partiamo con una piccola barca che sta insieme per miracolo ma sulla quale è montato un motore Ferrari: il contraccolpo alla partenza ci stampa sul fondo. In mezz’ora siamo sull’isola, ci piazziamo in capanne con pavimento in sabbia e tetto di foglie di palma proprio in riva al mare. Nel pomeriggio ci facciamo portare, sempre con la Ferrari, su altre piccole isole sparse qua e là per esplorare i fondali a nuoto.
Su uno di questi microatolli incontriamo un personaggio decisamente improbabile: finto alternativo di età indefinita, con pareo e lunghi capelli ossigenati, piccola barca a vela ormeggiata al largo, accompagnato da due “amiche” seminude, decisamente fuso. Per noi è Sandy Marton, fuggito da Ibiza. Sicuro, era identico. Ne siamo certi. Con questa certezza ritorniamo alle nostre capanne, ci facciamo la doccia con secchi d’acqua piovana raccolta in grosse cisterne e aspettiamo l’ora di mangiare. Scatta la partitona di volley: gringos contro figiani. A fondo campo il capo villaggio: una torre umana, circonferenza torace due metri, circonferenza ventrazza incalcolabile.
Alza la palla e colpisce verso il campo avversario con un gesto impercettibile: parte un proiettile nucleare che si schianta in campo occidentale. Da qui in poi soprassediamo con la cronaca di gioco. L’esito finale è scontato ma i gringos fanno comunque bella figura. Nel mentre io mi faccio a piedi tutta la circonferenza dell’isola con mezz’ora scarsa di cammino, passando su spiagge immacolate e tra radici fitte di mangrovie affondate nell’acqua.
Al tramonto decine di volpi volanti si involano dall’isola di fronte a noi per venire a pernottare sulle palme sopra le nostre teste. All’ ora di cena i religiosi ci chiamano soffiando in una grossa conchiglia dalla quale esce un suono bellissimo e profondo. Tiriamo tardi tra parole a ruota libera, sigarette e birra e poi ci ritiriamo, ognuno nel suo giaciglio. Nel buio della notte Robinson Crusoe sorride sornione.
King’s Road
Lasciamo Caqelai nella tarda mattinata e torniamo a Levuka. Come nell’iconografia più classica gli isolani ci salutano e ci congedano mettendoci fiori nei capelli. Che naturalmente finiscono in mare con la partenza turbo della microbarchetta. Torniamo per una notte al Royal Hotel e gironzoliamo in paese per tutto il resto della giornata. Domani la sveglia è alle sei del mattino: ci aspetta il solito bielica per Suva.
Oggi è una lunga giornata di viaggio: all’alba un camioncino ci viene a prelevare in hotel, dopo un’ora siamo al campo di patate, decolliamo, per fortuna atterriamo: Nausori (aereoporto di Suva). Da qui prendiamo un bus che dopo cinque ore di viaggio giunge a Lautoka dopo aver percorso tutta la Kings Road che costeggia Viti Levu a nord.
Forse per la stanchezza il posto ci appare ostile e inospitale. Camminiamo per Lautoka senza meta fino all’ora di cena, consumata in uno strano ristorante che pare una sala d’aspetto. La stanza d’albergo è fredda e umida, corredata di simpatici scarafaggi. Domani andiamo via. L’abbiamo presa male, Leutoka non puo’ recuperare.
Il sei settembre siamo di nuovo a Nadi, ultimo giorno alle isole Fiji in attesa della trasvolata che ci porterà a Samoa. Decidiamo di trascorrere la giornata nel più classico dei modi: acquisto selvaggio del souvenir. Tra botteghe e mercati riusciamo a comprare oggetti vari ed eventuali.
Nel pellegrinaggio ci tocca il nostro ennesimo cava: brodo rituale offerto in mezzo cocco, ottenuto da una pianta del pepe, leggermente anestetico e stordente. Butta giù, butta giù! Visitiamo il colorato tempio hindu e in un modo e nell’altro facciamo arrivare l’ora della partenza: Samoa ci aspetta.
ITINERARIO
23 agosto 2003 – Milano – Francoforte – Los Angeles – Nadi voli Lufthansa e Air New Zealand
24 agosto 2003 – giorno perso nello spazio – miracoli del fuso orario!
25 agosto 2003 – arrivo a Nadi, isola di Viti Levu alle 2.30 del mattino
26 agosto 2003 – in giro per Nadi
27 agosto 2003 – da Nadi alla costa sud – Coral Coast – Queens Road – Sigatoka – Korotogo in bus
28 agosto 2003 – in giro per Korotogo – Kula Eco Park – a Suva in bus
29 agosto 2003 – da Suva all’isola di Taveuni in aereo
30 agosto 2003 – trekking per la Lavena Coastal Walk
31 agosto 2003 – a Wayewu (costa sud di Taveuni) in auto – a Savu Savu (isola di Vanua Levu) in barca
1 settembre 2003 – da Savu Savu a Suva in aereo – 2° volo per Levuka (isola di Ovalau)
2 settembre 2003 – in giro per Ovalau
3 settembre 2003 – da Ovalau all’isola di Caqelai in barca – in giro per Caqelai
4 settembre 2003 – da Caqelai a Levuka in barca
5 settembre 2003 – da Levuka a Suva in aereo – a Lautoka (King’s Road, costa nord) in bus
6 settembre 2003 – da Lautoka a Nadi – volo Air Pacific per Samoa
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