Indonesia 2001
Il Diario
Siapa nama anda? Nama saya Indonesia!
L’arrivo
Torino-Parigi-Singapore-Jakarta: la fine dell’interminabile viaggio per l’Indonesia ci vede, storditi e spaesati, all’aereoporto della capitale, persi nella ricerca di un’auto o di un bus che ci porti in città. il primo slalom tra le varie offerte , ufficiali e non, di mezzi di trasporto ci coglie impreparati: siamo poco combattivi e contrattuali. non pretendiamo troppo da noi stessi : saliamo su un taxi qualsiasi e ci dirigiamo verso il nostro hotel, unico già prenotato dall’Italia per essere sicuri di riprendere le forze prima della grande avventura.
Guardando fuori dal finestrino, con lo sguardo vacuo e i vestiti stropicciati, vediamo scorrere veloci le prime vere immagini del nostro viaggio: il tipico caos da megalopoli del terzo mondo. Un magma infernale di auto, camion, motociclette, biciclette, carri e carrretti invade ogni metro di strada percorribile.
Ovunque un brulicare di gente in movimento, un concerto continuo di clacson la colonna sonora. Il nostro hotel è come ce lo aspettavamo: venti piani di extra-lusso caduti non si sa come nel cuore di questa Babele d’oriente. Dentro l’atmosfera è straniante: marmi, specchi, saloni deserti, silenzio da cattedrale; a parte un solitario ed improbabile pianista che suona per un pubblico assente. Da dimenticare.
Dalla finestra del quindicesimo piano la città sembra un mare in tempesta. A perdita d’occhio luci e serpenti di macchine, case e palazzi. Circa dieci milioni di persone si aggirano freneticamente in questo labirinto. La sera facciamo una camminata di qualche ora senza meta presisa per la città alla ricerca di un pasto: ci imbattiamo in interi quartieri di grandi magazzini e Mc Donald.
Il desiderio è quello di scappare al più presto in cerca della vera Indonesia, anche se questa è probabilmente una delle sue mille facce. La decisione di fuga del giorno successivo si scontra immediatamente con il tempo orientale: l’unico treno in partenza per la città di Yogyakarta è previsto per il primo pomeriggio.
Non ci resta che girovagare per la stazione, la “stasiun” in Indonesia. Beviamo del tè, mangiamo qualcosa ai warung, semplici chioschi che vendono cibo e bevande, nel piazzale antistante. I warung offrono a poco prezzo un buon pasto, a patto di non indagarne la composizione e l’acqua è in omaggio, ma meglio non berla.
E’ ora di partire e sulla banchina, aspettando il nostro treno, ne vediamo transitare altri che trasportano passeggeri fin sui tetti dei vagoni: sembra un esodo. Otto ore di treno, tra topolini che scorrazzano allegramente tra i sedili e aria condizionata tarata sulle temperature del polo nord mettono a dura prova la nostra appena recuperata buona condizione fisica. Arriviamo a Yogyakarta in piena notte.
Quattro passi e appena fuori dalla stazione troviamo alloggio in un piccolo hotel decisamente confortevole. Il giorno seguente finalmente ci svegliamo in Indonesia, quella sognata.
La città imperiale dell’Indonesia – Yogyakarta
Yogya ci regala un ricco itinerario. L’attuale palazzo del sultano, città nella città in cui vivono e lavorano oltre 25.000 persone, sorge accanto alla città vecchia, l’antica reggia: affascinanti architetture di palazzi, canali, piscine, ora in disfacimento, lasciano trasparire l’antico splendore.
Camminando per la città ci salta immediatamente agli occhi la presenza, sulla porta di ogni casa, di gabbie di uccelli che riempiono le vie con il loro canto. Chiedendo informazioni capiamo che, per tradizione, il numero di uccelli posseduti è segno esponenziale di prestigio per le famiglie. Oltre alla conosciuta pratica del combattimento di galli, è qui tipica la gara di canto tra pennuti.
Non può mancare, quindi, una visita, forse la più curiosa a Yogyakarta, al mercato degli uccelli, un mercato in realtà brulicante di animali di ogni specie: pappagalli coloratissimi, tortore, merli, volatili esotici dai colori sgargianti, ma anche serpenti, pipistrelli giganti, gatti selvatici, falchi, iguane, ragni, scimmie, cavallette, formiche e persino larve d’insetti. Consigliato ad anime non troppo sensibili!
Yogya pullula di laboratori di batik, forse i più belli tra quelli visti in tutto il viaggio, e bisogna faticare non poco per sfuggire indenni ai venditori. Becak! Becak! L’offerta di biciclette-taxi accompagna tutto il nostro peregrinare.
Il non arrendersi ai tempi del viaggio porta inevitabilmente a sbagliare ora, posto e quantità di soldi nel portafoglio: vogliamo completare la giornata visitando il tempio hindu di Borobudur, 42 chilometri a nord-ovest di Yogyakarta. Il piccolo bus che ci trasporta ci mette il doppio del tempo previsto, giunti sul posto lìarea archeologica sta per chiudere e il ticket d’ingresso ha un prezzo superiore al budget odierno. In tasca non ci restano che poche rupie.
Ci accontentiamo di una visita esterna e ci ripromettiamo di prendercela con più calma. Correre qui in Oriente è controproducente.
Il Bromo
Trascorriamo l’intero giorno successivo su un pullman: dodici ore di viaggio per raggiungere il Bromo, vulcano attivo di 2392 metri situato nell’area del massiccio del Tengger. Il tragitto ci racconta molto sull’Indonesia e sull’isola di Java: non incontriamo un solo tratto di strada libero da case, macchine, biciclette e bancarelle. Un fiume ininterrotto di gente in transito dalla partenza all’arrivo.
Java è l’isola più popolata dell’intero arcipelago indonesiano; da quello che possiamo osservare, decisamente sovrappopolata. Verso mezzanotte, dopo un ultimo tratto di strada che si arrampica su per la montagna, giungiamo a Ngadisan dove troviamo alloggio per la notte.
Le camere sono spartane e soprattutto non siamo sufficientemente attrezzati per queste temperature. Anche in Indonesia la montagna è pur sempre montagna. Non soffriamo a lungo anche perché la sveglia è prevista per le quattro del mattino.
Una levataccia, certo, ma lo scopo è quello di veder sorgere il sole dalla cima del vulcano. Le jeep si inerpicano per i sentieri, attraversiamo un immenso cratere trasformatosi in un suggestivo deserto di cenere e giungiamo alla meta.
Al comparire dei primi raggi di luce siamo testimoni di un’alba metafisica. Intorno a noi si apre la valle vulcanica e le bocche compaiono ad una ad una col progredire dell’intensità luminosa. Le cime sbucano come isole magiche in un mare di nubi: l’alba del mondo.
Con gli occhi pieni di questa meraviglia scendiamo dal Bromo per risalire su un’altra bocca. L’ascesa verso la vetta mette a dura prova gambe e polmoni, ma la vista dall’alto ripaga dello sforzo. Ci affacciamo su un abisso fumante di zolfo: l’odore è acre, l’aria quasi irrespirabile.
Ragazzi vendono cespi di fiori secchi da gettare nel cratere come offerta votiva. Dall’alto osserviamo il deserto di cenere che abbiamo attraversato qualche ora prima. Al centro un tempio buddista, tutt’intorno uomini a cavallo di piccoli destrieri agghindati con drappi colorati: pare il deserto dei tartari. L’atmosfera è lunare.
Le spiagge nere di Lovina
Il farsi del male volontariamente attiene al viaggiatore ad oltranza, per cui nel pomeriggio si riparte impavidi alla volta del parco naturale di Baluran. Nonostante si legga sulla guida che il luogo merita una sosta, giunti sul posto decidiamo nostro malgrado di proseguire: la struttura è decisamente dismessa e l’accoglienza non è delle più calorose.
Altro bus verso Banyuwangi e poi verso Ketapang, piccolo porto da cui partono i traghetti per Bali. Qualche ora di attesa, come sempre, poi un’ora di traversata ed eccoci nell’isola da sempre presente nell’immaginario esotico di ognuno. Giunti sulla terraferma le scelte possibili sono due: dirgersi verso la costa sud, verso Kuta, o verso quella nord, verso Lovina.
Kuta è l’apoteosi del ricco turismo occidentale trapiantato in Oriente: grandi alberghi, boutiques di lusso, spiagge curate, ristoranti internazionali, quartieri interi invasi da negozi di souvenir, concentrazione umana di turisti, soprattutto australiani e americani, sopra la media sopportabile. Il misticismo orientale qui non è di casa. Kuta dicono sia uno dei più famosi paradisi per surfisti. Le onde dell’oceano sono decisamente da record, i surfisti sono in effetti una moltitudine, ma sul fatto che questo posto sia un paradiso ci sarebbe da discutere.
Naturalmente scegliamo la strada verso la costa nord di Bali e giungiamo a Lovina. Questo è in effetti un vero piccolo angolo d’eden. Alloggiamo in un bungalow sulla spiaggia, circondato da un giardino pieno di fiori. L’arredamento è povero, non c’è acqua calda, ma per una cifra assolutamente irrisoria (2 euro per notte, compresa la colazione!) possiamo ammirare il tramonto sul mare di Java seduti in veranda. Impagabile. Il giorno successivo ci tuffiamo nell’esperienza del “rent a motorbike!”: affittato un motorino gironzoliamo senza meta precisa lungo la costa e verso l’interno.
La Bali induista è molto diversa dalla Java musulmana che abbiamo appena lasciato. Piccole e delicate offerte di fiori e incensi raccolti su foglie intrecciate sono appoggiate davanti ad ogni porta, ad ogni bottega, lungo i marciapiedi. Il verde dei campi di riso ha una luminescenza unica, quasi fosforescente, anche quando il cielo si carica di nuvole e il vento fa ondeggiare le palme. Incontriamo persone dal sorriso gentile che si muovono con una calma serena che ci contagia. Da qui non ripartiamo subito. Dedichiamo un’intera giornata al riposo sulla spiaggia vulcanica di sabbia nera.
Dobbiamo fare scorta e tesoro di questa bellezza, anche perché il giorno seguente il passaggio da Kuta è obbligatorio: una notte di pernottamento si impone, per poter prendere il volo alla volta di Flores dall’aereoporto di Denpasar. Le poche ore trascorse a Kuta ci confermano i sospetti: nulla di più di una qualsiasi località turistica iperoccidentalizzata, frenetica, affollatissima.
Acquistiamo il nostro biglietto aereo in un’agenzia di viaggio al secondo piano di un edificio fatiscente; mentre aspettiamo l’emissione del ticket dalla finestra entra un cane spelacchiato. Dalla finestra del secondo piano !?! Non ci facciamo troppe domande, potrebbe essere una visione.
Flores: paradiso perduto
Partiamo alla volta di Flores, isola all’estremo est dell’arcipelago indonesiano, decisamente periferica rispetto ai percorsi turistici tradizionali. Arriviamo a Maumere e dall’esatto momento del ritiro bagagli capiamo senza ombra di dubbio che ci siamo lasciati alle spalle il turismo di massa. Lo scalo è piccolo e povero come una stazione di treno di provincia e, appena usciti dall’aereoporto ci rendiamo conto che sono più numerose le guide che offrono i loro servizi di noi turisti appena sbarcati.
Scegliamo un albergo un po’ a caso e cominciamo le prime faticose contrattazioni per avere una macchina con autista-guida per i giorni a venire, unico modo per attraversare Flores verso ovest senza impiegarci più o meno un mese. La giornata intera trascorsa a girovagare per Maumere ci offre un’atmosfera nuova. A differenza della Java musulmana e della Bali hindu, Flores è un’isola prevalentemente cattolica. Non più moschee, non più templi in pietra grigia, ma chiese, croci e campanili ovunque.
La piccola città di Maumere, luogo poverissimo, ha un’atmosfera rarefatta e dismessa. Sono ancora visibili e tangibili le ferite profonde lasciate dal terribile terremoto che ha colpito l’Indonesia con epicentro in queste zone nel 1992. Case crollate e semidistrutte un po’ ovunque, mai più ricostruite. Nel nostro peregrinare per la città veniamo assaliti da decine e decine di bambini che, armati di quaderno e penna, ci chiedono di scrivere nomi, professioni e impressioni sul luogo, probabilmente un compito da svolgere per la scuola.
Siamo accerchiati da una moltitudine di grandi occhi scuri e sorrisi luminosi: ci sentiamo come delle vere e proprie rockstar che firmano autografi! Il giorno seguente partiamo alla volta di Moni, villaggio dall’entroterra e campo base per l’ascesa al Kelimutu, secondo complesso vulcanico del viaggio. Il tragitto da Maumere verso Moni, a bordo di una jeep scassatissima guidata da Anjelino, la guida che abbiamo scelto, dura tutta la giornata. Le strade sono in gran parte sterrate e molto strette. Attraversiamo foreste di palme e chilometri di boschi di banani; sul ciglio della strada i contadini attendono pazienti il passaggio dei camion che caricano il loro raccolto comprato per poche rupie (per essere rivenduto poi a tutt’altro prezzo sui mercati balinesi).
Facciamo uan tappa suggestiva a Paga Beach, spiaggia meravigliosa e deserta sulla costa sud di Flores: nulla da invidiare a Kuta, ma nessun surfista all’orizzonte, solo pescherecci al largo e un gruppo di poliziotti indonesiani che suona la chitarra all’ombra di una palma. Il nostro percorso prosegue verso Moni: la jeep si arrampica su per le montagne e dopo molte ore arriviamo al villaggio, collocato in una piana che improvvisamente si apre di fronte a noi.
Il villaggio è povero e semplice, come l’alloggiamento che troviamo, ma molto confortefole. Passeggiamo tra le risaie a terrazze dove incontriamo bellissimi bimbi che ci accerchiano chiedendo in coro biro e sigarette (?!). Poco distante un ragazzo pascola le oche tra gli specchi d’acqua dei campi e i contadini lavorano curvi sulle fragili piantine di riso. Qualche passo fuori dal villaggio e si arriva ad una piccola cascata tra le rocce: una fonte di acqua calda e sulfurea nella quale ci tuffiamo senza indugi. La sera scorre tranquilla, tra chitarra ed arak, un distillato di palma decisamente alcoolico e dal dubbio sapore.
Dopo pochissime ore di sonno ci svegliamo per la gita al Kelimutu: un’altra alba sui vulcani dell’Indonesia. Nel buio della notte il sentiero che ci porta alle pendici del cratere è un vero e proprio azzardo, soprattutto perché Anjelino, la nostra guida, ha decisamente abusato dell’arak ed ora guida la jeep con eccessiva disinvoltura. Vivi ed un po’ scossi cominciamo la camminata a piedi verso la cima. Poco più di mezz’ora ed arriviamo quando sta per albeggiare tra le grandi bocche del complesso del Kelimutu. I tre crateri sono ora dei laghi naturali con una straordinaria particolarità, il colore: c’è il lago nero, quello marrone e quello turchese. La colorazione dipende dalle sostanze minerali che mano a mano si sciolgono nell’acqua dalle pendici dei crateri. Il colore cambia negli anni e non molto tempo fa uno di questi laghi era incredibilmente rosso.
Lo spettacolo è singolare e la suggestione intensa. La leggenda locale narra che le anime delle persone defunte riposino nei tre laghi: le anime dei giovani in quello turchese, quelle dei vecchi in quello marrone e le anime delle persone malvage in quello nero. Crederci o meno poco importa: qua in cima il panorama è unico, gli specchi d’acqua colorati sono quasi fantascientifici e la presenza di alcuni uomini del villaggio, seduti in preghiera sull’orlo dei crateri crea un’atmosfera di raccoglimento e induce, atei o mistici, alla silenziosa meditazione.
Dodici ore in canoa
Dopo qualche ora scendiamo verso Moni e immediatamente ripartiamo per la tappa seguente: Riung, villaggio sulla costa nord di Flores. Il viaggio è estremamente accidentato: le strade sono forse più dissestate di quelle del giorno precedente e infliggono il colpo di grazia alla nostra jeep. Fermi in un deserto di colline bruciate dal sole ci sentiamo senza via d’uscita.
Per fortuna Anjelino ci procura un passaggio alternativo: un improbabile bemo, un piccolo pullmino solitamente usato per spostamenti locali. Meglio di niente! Le due ore di viaggio verso Riung ci creano qualche apprensione: due giovani autisti tatuati che non sanno una parola di inglese, luci decorative intermittenti sul cruscotto, musica country (?!) a tutto volume, solo noi unici passeggeri. Arriviamo indenni che è già buio e l’unico posto dove dormire è un ostello religioso.
Scivoliamo all’istante nel sonno dei giusti tra immagini sacre e rosari. L’alba del giorno seguente ci vede, decisamente più in forma, girovaghi per Riung: un villaggio di pescatori, molto povero ma altrettanto bello. Le poche case sono sparse tra la foresta di palme e quelle vicino al mare sono costruite come palafitte a causa delle frequenti maree. La barriera corallina di fronte al villaggio merita una gita.
Una piccola barca ci trasporta per tutto il giorno da un atollo ad un altro del parco marino delle diciassette isole amministrato dal PHPA (il corrispettivo del nostro dipartimento forestale). L’area del parco marino è semplicemente meravigliosa: fondali ricchissimi di pesci e coralli dai colori stupefacenti, sulle isole le foreste di mangrovie sono l’habitat delle volpi volanti (flying foxes, praticamente pipistrelli di enormi dimensioni). Le spiagge sono bianchissime e incontaminate. Una visita unica e imperdibile.
In serata ci accordiamo con una giovane guida locale (Melchiorre!) per trasferirci via mare il giorno seguente a Labuanbajo, all’estremo ovest di Flores. La partenza, manco a dirlo, à prevista per le cinque del mattino a causa della lunghezza del tragitto da percorrere: è ancora buio e al piccolo porto ci siamo solo noi, Melchiorre, il cuoco della barca (Baldassarre!) e il mozzo.
E il capitano? Arriva a cavallo di una moto rombante, trasportando a mo’ di bisacce due taniche di carburante per la traversata. La barca è grossa come una vasca da bagno e noi siamo in sei, la durata del viaggio è di circa dodici ore. Arriveremo vivi? Salpiamo che sta albeggiando, non prima di aver prelevato altro gasolio dalle imbarcazioni ancorate nel porto. I casi sono due: o c’è un accordo tra i vari capitani o stiamo partecipando ad un furto.
Durante il tragitto il giovane mozzo si muove come un agile ragno da un estremo all’altro della bagnarola, il cuoco ci sfama con una sbobba anonima, il capitano guarda silenzioso l’orizzonte e la nostra guida dorme profondamente. Non ci resta che guardare il panorama, anche perché non c’è spazio fisico neppure per alzarsi in piedi. Navigando sottocosta scorgiamo piccoli villaggi raggiungibili solo dal mare, chilometri di terra inabitata, incontriamo i delfini (lumba lumba) e i pesci volanti.
Alla decima ora di viaggio la voglia di ammirare tanta bellezza è tramontata, così come il sole. Arriviamo al porto di Labuanbajo che è quasi buio. Siamo sopravvissuti.
Seventeen Islands
Sbarchiamo, rimettiamo in funzione le articolazioni arrugginite e ci incamminiamo alla ricerca di un alloggiamento per la notte. Qui i turisti sono decisamente in numero superiore rispetto a Riung e si prospetta il rischio di rimanere senza giaciglio. La prima notte ci tocca trascorrerla accampati provvisoriamente in una delle stanze private dei gestori della pensione, in attesa libera per il giorno seguente.
Accettiamo e ci pare una reggia: in fondo veniamo da un viaggio interminabile in una tinozza, questo è l’Hotel Ritz! La vista dalla terrazza del ristorante, in cima ad una collina sopra il porto, è speciale: sotto di noi la baia di Labuanbajo è costellata di piccole luci; sono le lampade delle barche dei pescatori di seppie. Le imbarcazioni sono costruite con due grandi bilanceri laterali che le fanno assomigliare a delle grosse farfalle.
Le luci sul mare, dopo il tramonto, fanno da specchio al cielo stellato. Ci godiamo la visione di tanta meraviglia bevendo una birra gelata che ci da il colpo di grazia: proviamo per la prima volta nella vita il mal di terra. Un’intera giornata tra le onde ci ha lasciato addosso, ora sulla terraferma, una sensazione di vertigine inedita e curiosa. Tutto gira, meglio andare a dormire.
Dopo un giorno di assoluto riposo, indispensabile per potersi godere i giorni a venire, affittiamo una barca che ci porti all’isola di Seraya: dalla barca, che attracca al largo dell’isola a causa della barriera corallina, veniamo traghettati ad uno ad uno sull’isola con piccole canoe. Sulla spiaggia solo un piccolo ristoro e dieci bungalow per chi si vuole fermare di più.
I fondali intorno all’isola sono un’esplosione di coralli, pesci e stelle marine blu e arancioni. Ci rilassiamo sulla spiaggia all’ombra di un enorme albero di tamarindo (ecco com’è il tamarindo fuori dalle bottiglie!). Allo stesso albero è interessata una capra decisamente intraprendente e invadente che mendica un aiuto per raggiungere le tenere foglie dei rami per lei troppo alti.
La aiutiamo ma non troppo: rischiamo di farci rosicchiare completamente la nostra unica fonte d’ombra. I bungalow per qualche giorno di pace sono invitanti, ma naturalmente noi abbiamo altri programmi. Organizziamo la partenza per il giorno successivo unendo le nostre forze a quelle di altri tre intrepidi viaggiatori instancabili. Tragitto: da Flores a Lombok sempre via mare, con tappa alle isole di Rinca e Komodo per vedere i mitici varani di infantile memoria; quattro giorni di oceano aperto, senza interruzione. Ce la possiamo fare!
Viaggio nella preistoria
Dopo poche ore dalla partenza comprendiamo inesorabilmente che le differenze tra il nostro mare e l’oceano sono sostanziali: quando l’oceano è agitato non usa mezze misure. Per il nostro equipaggio le onde che sferzano la barca sono assolutamente nella norma, quasi amichevoli. Per noi sono un maremoto. Probabilmente la verità sta nel mezzo, ma certamente rotolare per un giorno e una notte sul ponte della barca non ci rende ottimisti rispetto al buon esito della traversata. Nulla da obiettare sul resto del viaggio.
Ogni tanto ci fermiamo al largo di qualche atollo deserto che raggiungiamo a nuoto, ci sdraiamo su spiagge di sabbia rossa, i fondali marini sono sempre nuovi e ricchi di flora e fauna che solo la barriera corallina consente di ammirare.
Il trekking sulle isole di Rinca e Komodo è un’esperienza singolare: accompagnati dalle guide del parco camminiamo per ore in isole deserte, tra palme, mangrovie, orchidee rampicanti, bufali d’acqua, cervi, maiali selvatici e soprattutto varani. Non è facile incontrare questi lucertoloni preistorici lunghi quasi tre metri a zonzo per il bosco. Non si rischia comunque una visita a vuoto perché alcuni varani sono sdraiati sulla banchina del molo, in realtà costretti, a mo’ di benvenuto. Va beh…
Le notti stellate al largo delle isole, immersi in un silenzio assoluto e circondati dalle barche illuminate dei pescatori di seppie, fanno pensare di essere capitati in un luogo fatato ai confini del mondo. Ci svegliamo dal sogno quando veniamo abbordati, come all’epoca dei pirati, da una barca di venditori di souvenir. Ammiriamo lo spirito di iniziativa e giochiamo a contrattare per ore sul prezzo, tra chiacchiere. Kretek (sigarette aromatiche ai chiodi di garofanno) e l’immancabile arak.
Dopo cinque giorni e quattro notti di mare aperto e dopo aver costeggiato l’isola di Sumbawa, finalmente attracchiamo a Lombok. Arrivati al porto di Labuhan Lombok affittiamo un bemo che ci porti a Bangsal, da dove partono i traghetti per le isole Gili. Attraversiamo l’isola di Lombok da est a ovest e nel tragitto, che passa per le montagne dell’interno, ci imbattiamo in branchi di scimmie: sul ciglio della strada mendicano biscotti ai turisti e si mettono in posa per le fotografie.
Relax a Gili Meno, paradiso in Indonesia
A Bangsal, dopo il solito assalto di venditori di tutto il vendibile (collane, cappelli, sigarette, passaggi sul carretto e quant’altro), traghettiamo verso Gili Meno, la più piccola e tranquilla delle tre isole di questo piccolo arcipelago che comprende anche Gili Air e Gili Trawangan. Siamo quasi alla fine del nostro lungo viaggio e vogliamo passare una settimana di assoluto riposo. Gili Meno ci offre ciò che cerchiamo: bungalow sul mare, spiagge da sogno, pochi turisti.
Il perimetro dell’isola è percorribile a piedi in meno di due ore (per dare una misura delle dimensioni dell’isola), al centro c’è un piccolo villaggio e un lago salato dove nidificano le aquile di mare. Sull’isola i posti per mangiare sono solo due o tre, non c’è corrente elettrica ma solo generatori in funzione dalle sei di sera a mezzanotte, dalla doccia scende acqua salata e sono totalmente assenti i mezzi a motore: tutto ciò ci trasporta in una dimensione a noi quasi sconosciuta, di pace e totale tranquillità.
Sulla spiaggia anziane donne vendono ai pochi turisti la loro antica arte del massaggio, i bambini offrono ananas succosi a poco prezzo, il mare meravigliosi fondali per lo snorkelling, la sera ci si illumina con lampade a gas. Il luogo ideale per tornare a respirare un tempo lento e naturale, assai diverso da quello a cui siamo abituati.
Ubud e il ritorno
Dopo una settimana di questo paradiso ripartiamo verso l’ultima tappa del nostro tragitto in Indonesia. Nuovamente Bali, per una visita alla città di Ubud. Optiamo per una traversata veloce e indolore a bordo di un enorme aliscafo ipertecnologico che ci costa praticamente come la settimana di permanenza a Gili Meno.
Pazienza, ci restano solo due giorni utili prima del ritorno in Europa e il tempo è un bene prezioso. Scesi a Bali rientriamo immediatamente nei ranghi e per risparmiare prendiamo un taxi collettivo alla volta di Kuta. Una sola macchina per sei persone, con annessi bagagli: una specie di sfida all’impenetrabilità dei corpi.
Eccoci di nuovo nella capitale del turismo balinese. Riusciamo miracolosamente a trovare un alloggio piacevole alla vista e al portafoglio: un complesso di bungalow immersi nel verde di un giardino fiorito in piena città. Il giorno seguente è interamente dedicato alla visita di Ubud.
Quello che forse qualche anno fa era un piccolo e caratteristico villaggio dell’entroterra, luogo di arte e cultura, oggi si è trasformato in una specie di supermercato del souvenir. Naturalmente ne approfittiamo, anche se già il viaggio in auto da Kuta è stata una specie di via crucis dell’acquisto: il nostro autista non ha saltato nemmeno una delle fermate nei luoghi deputati al consumo (laboratori di oggetti in argento, in legno, di quadri e batik).
Ubud ci regala comunque una visita curiosa al parco delle scimmie, una collina fitta di vegetazione sulla quale sorge un tempio hindu completamente colonizzato da centinaia di scimmie decisamente in sovrappeso che tentano di rubarti ogni oggetto reputato commestibile. Nostro malgrado siamo giunti alla ultima cena indonesiana: domani ci aspetta il volo per l’Italia. Nella frenetica notte di Kuta ci gustiamo l’ultimo (finalmente) nasi goreng: riso, verdure, pollo, uova, tutto insieme.
Già siamo sopraffatti dalla nostalgia! Il viaggio di ritorno merita poche parole: taxi per l’aereoporto di Denpasar, aereo per Jakarta, ultimo saluto all’Indonesia, coincidenza per Parigi, altro aereo per l’Italia. Dopo venti ore sospesi per aria la magica Indonesia, l’arcipelago dai mille volti, è solo più nei nostri ricordi
L’itinerario
29 luglio 2001 – Torino – Parigi – Singapore – Jakarta – volo Air France
30 luglio 2001 – Java – Jakarta – arrivo alle 3.40 di notte – giro per la città
31 luglio 2001 – da Jakarta a Yogyakarta con il treno
1 agosto 2001 – Yogyakarta – giro per la città – Tempio di Borobudur
2 agosto 2001 – da Yogyakarta al Monte Bromo con il bus (12 ore)
3 agosto 2001 – trekking sul vulcano – Monte Bromo – mare di sabbia – Monte Betok – con il bus a Banyuwangi e Ketapang – a Bali con il traghetto – a Lovina (costa nord) con il bus
4 agosto 2001 – in giro per Lovina con il motorino
5 agosto 2001 – da Lovina a Kuta (costa sud) con il bus
6 agosto 2001 – da Kuta – Denpasar a Maumere, Flores con l’aereo – Merpati Airlines – in giro per Maumere
7 agosto 2001 – da Maumere alla costa sud di Flores e poi verso Moni in macchina – in giro per il villaggio di Moni
8 agosto 2001 – trekking sul vulcano Kelimutu – da Moni a Riung (costa nord di Flores) in macchina
9 agosto 2001 – in giro per Riung – tour Seventeen Islands in barca
10 agosto 2001 – da Riung a Labuanbajo (costa ovest) in barca – 12 ore
11 agosto 2001 – in giro per Labuanbajo
12 agosto 2001 – tour all’isola di Seraya in barca
13 – 16 agosto 2001 – da Labuanbajo, Flores a Lombok in barca – tappe alle isole di Komodo e Rinca per vedere i varani
17 agosto 2001 – arrivo a Labuhan Lombok – verso Bangsal in bus (dalla costa est alla costa ovest di Lombok) – alle Isole Gili in barca
18 – 24 agosto 2001 – relax a Gili Meno
25 agosto 2001 – da Gili Meno a Kuta in barca
26 agosto 2001 – da Kuta a Ubud in bus – in giro per Ubud e ritorno
27 agosto 2001 – da Denpasar a Jakarta in aereo – volo Air France da Jakarta a Parigi
28 agosto 2001 – da Paris a Torino con Air France
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