La Paz
Spesso durante i nostri viaggi abbiamo vissuto esperienze che meritavano di essere raccontate con maggiore respiro rispetto al diario, con più inventiva, con enfasi, con ironia.
Per questi motivi abbiamo raccolto qui quelle che per ora hanno visto la luce. Altre sono ancora nel cassetto ma appena possibile si aggiungeranno alle esistenti per arricchire queste pagine che mescolano realtà e fantasia.
Buona lettura.
La conca di La Paz
Atterraggio a 4000 metri
Quando si prende un aereo una delle poche certezze è quella che ci si stacca da terra, ci si alza nel cielo, a molti metri dal suolo, e poi si ridiscende, giù, in basso.
Questo naturalmente se tutto va bene.
Atterrare a La Paz, Bolivia, mette in crisi questo fondamento, perché scesi dall’aereo ci si ritrova sì sulla terra, ma a 4000 metri di altezza. Ma allora, uno è sceso o è salito?
Dopo la solita barriera dei controlli aeroportuali si scorge una anonima saletta che segnala la presenza di bombole a ossigeno. Sembra strano ma dopo essere usciti all’aria aperta ed avere respirato profondamente si comprende il perché: il cielo nero china è meraviglioso, le stelle pulsano in una nitidezza mai vista, l’aria è fredda, pura, pungente come una lama di acciaio piantata nel cuore. E resta lì, la lama. Conficcata nel cuore almeno per un giorno.
A La Paz si atterra nel cielo e noi, animali di terra, non siamo pronti ad esperienze così elevate.
La visione
L’aereoporto di La Paz sorge in un luogo chiamato El Alto, e questo è un fatto. El Alto raccoglie la disperazione e la povertà di La Paz. E’ la periferia, malfamata e derelitta, della città sottostante. Perché qui, sulla cima delle Ande, essere ricchi vuole dire vivere in basso, dove l’ossigeno regala un po’ di tregua ai polmoni affaticati, dove puoi permetterti di correre, non troppo, ma correre.
Lasciando El Alto si incontra la “frontiera” del pueblo: il casello a pedaggio, barriera verso una sopravvivenza meno stentata.
Ma la natura, splendida e crudele, va immediatamente oltre questi umani ragionamenti perché la vista della città incantata ti cattura comunque e allora non c’è più ricco o povero, vita o morte, salvezza o perdizione.
C’è La Paz, nella conca profonda blu notte, tempestata di luci che si riflettono nelle stelle del cielo. E’ laggiù, sprofondata nel suo silenzio apparente, circondata, protetta o forse accerchiata, dai suoi declivi affollati da migliaia di case. Case che la osservano, la assediano, pronte a scivolare giù nella sua gola alla minima distrazione.
La Paz è lì, mollemente in attesa di essere sommersa e conquistata dal desiderio, maledetta per la sua irraggiungibilità, desiderata per la sua promessa vitale. Padrona capovolta, regina nei bassifondi di un popolo disperato appeso alle nuvole, che sogna di cadere in basso per vivere.
La città
La Paz è bella. La Paz è brutta. La Paz è un formicaio, è silenziosa, è confusa. La Paz è antica, è moderna, è cadente, feroce, accogliente.
La Paz brulica di gente, di animali macellati accatastati per terra nei mercati, brulica di chiese buie e illuminate, di caffè vuoti e polverosi, di grammofoni silenziosi e vecchie mappe del mondo, di cortili ombrosi e di vie trafficate, di suonatori ciechi di charango e di turisti distratti, di donne con la bombetta e militari in libera uscita, di affitta cellulari agli angoli delle strade e di cani pulciosi, di locali malfamati e affollati di giovani ragazze ubriache, di giardini silenziosi, di luci e di ombre.
La Paz è un sonno agitato di diciotto ore senza interruzione che lascia storditi e inquieti.
La Paz è un sogno che ti cattura per sempre.
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